Stagione 2019/2020 | 13 ottobre 2020
SENZA LASCIARE TRACCIA
Titolo originale: Leave no trace
Regia: Debra Granik
Soggetto: dal romanzo “My
Abandonment” di Peter Rock
Sceneggiatura: Debra Granik, Anne Rosellini
Fotografia: Michael McDonough
Musiche: Dickon Hinchliffe
Montaggio: Jane Rizzo
Scenografia: Chad Keith
Costumi: Erin Orr
Suono: Christian Dolan, Roberto Fernandez (II), Damian
Volpe
Interpreti: Ben Foster (Will), Thomasin McKenzie (Tom), Dale
Dickey (Dale), Jeff Kober (mr. Walters), Isaiah Stone (Isaiah), Jeffery
Rifflard (veterano), Derek John Drescher (Larry), Michael Draper (runner),
Peter Simpson (poliziotto), Erik McGlothlin (ufficiale K-9), Dana Millican
(Jean), Alyssa McKay (Valerie), Ryan Joiner (Tiffany), Michael J. Prosser
(James), Spencer S. Hanley (pastore), Tamera Westlake (danzatrice), Bob Werfelman
(Bob), Jacob Johnson (coach), Art Hickman (camionista), Derek Carmon
(detective), Zoë Dotson (ragazzina in viaggio), David M. Pittman Blane, Susan
Chernak McElroy (Susan), Marisa Anderson, Michael Hurley (musicisti)
Produzione: Anne Harrison, Linda Reisman, Anne Rosellini per
Bron Creative, Topic Studios, Harrison Productions, Reisman Productions, Still
Rolling Productions Films
Distribuzione: Adler Entertainment
Durata: 107'
Origine: U.S.A., 2018
Data uscita: 8 novembre 2018
La 15enne Tom vive clandestinamente con il padre nella foresta che
confina con Portland, in Oregon. Limitando il più possibile i loro contatti con
il mondo moderno, padre e figlia formano una famiglia atipica e molto unita.
Quando vengono costretti ad abbandonare il loro rifugio, ai due vengono offerti
una casa, una scuola e un lavoro. Tuttavia, mentre il padre fa fatica ad
adattarsi, Tom scopre con curiosità la nuova vita. È forse giunto per lei il
tempo di scegliere tra l'amore filiale e questo nuovo mondo che la sta chiamando?
“Senza lasciare traccia” non è di certo un buon augurio per un film.
Il titolo però in questo caso non corrisponde al risultato perché il film di
Debra Granik non solo lascia traccia, ma è addirittura memorabile. Dopo otto
anni la regista candidata all’Oscar per “Un
gelido inverno” torna dietro la macchina da presa per raccontarci una
storia che vede nuovamente protagoniste delle persone ai margini della società.
Lontani dall’American dream e
dai grattacieli delle grandi metropoli siamo immersi ancora una volta
nell’America della provincia, quella dimenticata, che raramente si vede sul
grande schermo. Con il film precedente avevamo scoperto la zona montuosa del
Missouri, nel cuore degli Stati Uniti, questa volta siamo catapultati in un
altro remoto angolo dimenticato da Dio, in mezzo a un bosco che si trova alle
porte di Portland in Oregon, in un accampamento isolati dal mondo dove vivono
un padre (Ben Foster) e una figlia di nome Tom (la bravissima australiana
Thomasin McKenzie). Lui è un veterano della guerra in Iraq affetto da PTSD (il
disturbo da stress post-traumatico), argomento che già la regista aveva
trattato in “Stray dog” su un
veterano del Vietnam. Lei ha tredici anni, ma è molto più matura della sua età.
Entrambi vivono nel loro piccolo microcosmo lontani dalle tecnologie e dalle
relazioni, immersi nella natura, alla “Into
the wild” di Sean Penn per intenderci. E’ quello il loro modo di vivere,
libero e senza legami, se non il loro.
Se non che (la storia vera da
cui è tratto il film è divenuta una specie di leggenda nell’area di Portland,
ma la pellicola è anche tratta dal libro di Peter Rock “My Abandonment”) un giorno, dopo quattro anni, vengono trovati
nella riserva naturale e saranno costretti a lasciare il parco per essere affidati
agli agenti dei servizi sociali. Proveranno ad adattarsi alla situazione. Per
assurdo - beffardo il destino - lui per lavoro dovrà disboscare i pini per poi
venderli come alberi di Natale. Ma come può un pino che cresce rigoglioso nel
bosco trasformarsi in un albero di Natale, chiuso in un appartamento con tanto
di lucine? Allo stesso modo lui non ce la fa. E scappa verso una natura ancora
più selvaggia. Verso la sua natura. Che però non è la stessa di sua figlia. E’
lì che il loro rapporto inizia a vacillare. Tom è stanca di scappare e in parte
è attratta dalla civilizzazione. Vorrebbe fermarsi. La simbiosi finisce. Il
loro microcosmo autosufficiente si spezza e si separano l’uno dall’altra. Con
sofferenza, ma con amore. Proprio come ogni figlia da ogni padre. Solo in
questo modo Tom potrà affermare non solo una propria identità, ma anche quella
libertà (tanto agognata da entrambi nel loro modo di vivere) che solo la vera
crescita può veramente dare.
“Senza lasciare traccia” diventa così una bellissima storia
universale. Il tutto raccontato con linguaggio semplice e toccante allo stesso
tempo e reso ancor più bello da un’interpretazione da applausi di Thomasin
McKenzie, che regala al suo personaggio un’incredibile intensità. Una brava
giovane attrice, come Jennifer Lawrence, altra rivelazione in qualche modo
scoperta sempre dalla Granik.
Giulia Lucchini, Cinematografo.it
Un padre, una figlia. Un parco
naturale di Portland. Ci vivono, insieme. Per lui è un rifugio, un
nascondiglio. Per lei, semplicemente casa. Per gli altri un’illegalità
perversa, una stortura. Padre e figlia sono soggetti da aggiustare e
riassorbire nella rete sociale. Mentre lei transita dalla circospezione a
un’incerta apertura, lui, veterano di una guerra che è trauma non detto, e che
lo aliena da passato e presente, ha bisogno di fuggire. Ancora e ancora: è
tutto quel che sa. Un altro cane randagio; un altro studio di redneck; un altro
gelido inverno interiore. Ed è alla ragguardevole opera seconda della
newyorkese Granik che “Senza lasciare
traccia” è legato a doppio filo, con una figura paterna apolide che frena
la crescita di una ragazzina sola (lì Jennifer Lawrence, qui Thomasin Harcourt
McKenzie, alla quale auguriamo la medesima fortuna). Un fantasma di cui
rinvenire (e dimenticare) le ossa, allora; un capestro di carne mortifero, qui:
in entrambi i casi, alle figure femminili occorre sganciarsi da uno spettrale
legame di sangue che, con la sua storia (e la Storia, di cui è residuo e
portatore malato), infesta e blocca la propria discendenza. Granik ci ha messo
quasi un decennio per tornare al lungo di finzione ripetendo, sostanzialmente,
lo stesso film: ma laddove “Un gelido
inverno” affondava nell’horror matriarcale facendo parlare l’ambiguità
dell’assetto conservatore, in questo duplicato in minore si annusano
l’indolenza, la furbizia, nella calcolata scarnificazione e nell’intiepidimento
del conflitto tra soggetto politico emarginato e civiltà (sono tutti buoni e
bravi, dai ranger agli assistenti sociali alle comunità locali).
Fiaba Di
Martino, Film Tv
Filmografia:
Un gelido inverno - Winter’s Bone (2010), Senza lasciare traccia (2018)
Giovedì 15 ottobre 2020:
IL COLPEVOLE - THE GUILTY di Gustav Möller, con Jakob Cedergren, Jessica
Dinnage, Johan Olsen, Omar Shargawi
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