Stagione 2023/2024 | 16 aprile 2024
RITORNO A SEOUL
Titolo originale: Retour à
Séoul
Regia: Davy
Chou
Sceneggiatura: Davy Chou, Laure Badufle,
Violette Garcia
Fotografia: Thomas Favel
Montaggio: Dounia Sichov
Musiche: Jérémie Arcache, Christophe
Musset
Effetti: Yannig Willmann
Interpreti: Park Ji-min (Frédérique
Benoît), Oh Gwang-Rok (padre biologico di Freddie), Guka Han (Tena), Kim
Sun-young (zia coreana), Yoann Zimmer (Maxime), Louis-Do de Lencquesaing
(André), Heo Jin (nonna), Hur Ouk-Sook (nonna), Son Seung-Beom (Dongwan),
Dong-Seok Kim (Jiwan), Emeline Briffaud (Lucie), Lim Cheol-Hyun (Kay-Kay), Régine Vial (Gisèle Benoît),
Cho-woo Choi (madre biologica), Ioana Luculescu
(receptionist rumena)
Produzione: Charlotte Vincentl, Katia
Khazak per Aurora Films
Distribuzione: I Wonder Pictures
Durata: 117’
Origine: Francia-Cambogia, 2022
Data uscita: 11 maggio 2023
In
concorso al 75. Festival di Cannes (2022) nella sezione 'Un Certain Regard'.
Freddie,
25 anni, impulsiva e testarda, torna in Corea del Sud per la prima volta da
quando, appena nata, è stata adottata da una coppia francese. Qui, inizia a
cercare i genitori che l’hanno abbandonata. Tra incontri, nuove amicizie e
l’ombra di una madre biologica che non vuole farsi rintracciare, la ragazza si
trova immersa in una cultura molto diversa dalla sua e intraprende un viaggio
nel viaggio che la porterà in direzioni del tutto inaspettate. Per scoprire che
forse questa è la vita: incontrare l’inaspettato, cavalcarlo, essere tutte le
persone che avresti potuto essere.
Freddie ha venticinque anni, è nata in Corea del Sud ma è stata adottata
molto presto da una famiglia francese. La Francia è dunque il posto in cui è
cresciuta, ma a un certo punto eccola a Seoul; per caso, dice lei, perché il
maltempo le ha impedito di arrivare in Giappone, e quel viaggio rivela ben
presto una ricerca, quella dei suoi genitori biologici, e di un Paese che non
conosce, che la sorprende e la spiazza. Una ricerca attraversata da sentimenti
contrastanti, malinconia, rabbia, che fluttua in più direzioni ritmando la
narrazione del film di Davy Chou, presentato lo scorso anno a Cannes, e ora
nelle nostre sale.
Quarantenne, di famiglia cambogiana che col cinema ha sempre avuto
relazioni speciali, suo nonno era infatti uno dei più importanti produttori di
quel cinema in Cambogia distrutto dall’arrivo del regime di Pol Pot - Chou ne
ha costruito una possibile memoria in “Le
Sommeil d’or” (2012) - nelle sue storie (prima di questo, “Diamond Island”, 2016) sembra
prediligere quei margini in cui sono racchiuse le tracce di una memoria (e di
esistenze) possibili, che intrecciano un presente, un passato e, forse a un futuro.
Il centro di “Ritorno a Seoul”
è la sua protagonista (Park Ji-Min, all’esordio da attrice) indocile, ostinata,
di cui seguiamo i vagabondaggi nella capitale sudcoreana; una flanerie che
passo dopo passo rivela i suoi stati d’animo, provoca improvvise fratture
emotive tra incontri inaspettati e situazioni che le sfuggono. È che Freddie
(personaggio per il quale Chou si è ispirato alla vicenda vissuta da una sua
amica) prova a celare una fragilità troppo a lungo rimandata, qualcosa di
doloroso, il desiderio inespresso di conoscere i genitori, e insieme la
consapevolezza di una storia che lei ha sempre evitato.
Ci sono molte cose che resteranno sospese nel film, ma forse è anche
bene che accada, e altre che non troveranno risposte, non sempre almeno quelle
volute. A rintracciare i genitori Freddie non ci impiega troppo tempo, ma la
vera questione è: che fare a quel punto? Cosa dirsi, come andare avanti, come
non farsi assalire dalla frustrazione? Il padre, goffamente, prova a recuperare
gli anni passati, nel breve incontro le regala un paio di scarpe, sembra fuori
posto. Lui, che ora ha una famiglia, l’ha lasciata per darle un futuro
migliore, per il suo bene. Ma i due non si capiscono, c’è la distanza
linguistica, e soprattutto quella del cuore, il “lost in translation” che può
anche addolcire - o invece fare più male.
Melò di domande e di risposte, di vuoti sentimentali e di gesti
spigolosi, “Ritorno a Seoul” conferma
il talento di Chou, che sa comporre senza retorica lo stato d’essere tra più
mondi, e culture, l’appartenenza e la distanza, seguendo appunto le linee
sottili delle possibilità, i frammenti di ciò che si poteva essere e di ciò che
si è.
Cristina Piccino, Il Manifesto
Pochi minuti dentro il ristorante in cui si apre “Ritorno a Seoul” e nel quale conosciamo i personaggi principali e
già si viene investiti da una qualità intima coinvolgente. Sta tutta nello
stile naturalistico della recitazione (almeno all’inizio) e soprattutto nelle
scelte di fotografia, la vicinanza ai volti e lo scarso spazio per gli sfondi
se non quando indispensabile, i colori decisi e una dedizione evidente alle
persone e al linguaggio del corpo. Davy Chou è concentratissimo su questa scena
che è cruciale anche se la prima, è quella che imposta tutto. Parte in media
res, con questa ragazza dai lineamenti coreani ma in realtà francese che a
quanto pare è in viaggio a Seoul e ha conosciuto un’altra ragazza (locale) che
parla francese, ora si è aggiunto anche un altro coetaneo e cominciano a
coinvolgere i tavoli intorno. È una scena lunga piena di diverse risate, cibo,
alcol, balli e informazioni che serviranno per il resto della storia, a
portarla avanti è la tensione di questa protagonista tra due paesi, vitale,
decisa, piena di fascino e capace di incuriosire tutti, anche il povero ragazzo
che finirà a letto con lei, usato per il proprio piacere e poi sputato.
È un po’ questo il carattere di Freddie, interpretata da Park Ji-min con
occhio a mezz’asta e disinteresse per i sentimenti di tutte le persone che non
siano lei stessa. “Ritorno a Seoul”
ha questo di immediatamente coinvolgente: la protagonista è una stronza.
Capiamo che là a Seoul ci è finita quasi per caso ma gira intorno all’idea di
cercare i genitori che la diedero in adozione, è chiaro che per lei la cosa è
un problema nonostante agisca con una malcelata noncuranza. Troverà il padre,
un uomo derelitto con un carattere così peculiare che non può non essere
ispirato alla realtà (Laure Badufle che ha co-sceneggiato il film ha vissuto
un’esperienza simile), mentre la madre sembra non volerla incontrare. Il film
segue alcuni anni della vita di Freddie, anni di grandi cambiamenti, radicali
cambiamenti.
Arrogante, amareggiata, sicura di sé e fastidiosamente altezzosa,
Freddie è insopportabile eppure Park Ji-min mette dentro questo atteggiamento
un trauma, mette qualcosa a motivarlo, una specie di istinto distruttivo che
sembra venire da una rabbia atavica. Che è la stessa cosa che la rende
attraente. Così facendo il film non è mai indulgente con lei, che sarebbe una
vittima in teoria, e anzi pone le domande migliori, non soltanto cosa
un’adozione faccia ad una persona (che è la domanda che si farebbe qualunque
film sul tema) ma anche fino a dove questo trauma sia rispettabile, quando
diventi una giustificazione e quali siano i limiti della ricerca delle proprie
origini. Rispetto ai film sui ‘seconda generazione’ (si pensi al bellissimo “The Farewell”) questo è un altro paio di
maniche, non c’è astrazione, non c’è retorica, è la dura realtà di questo tipo
di rapporti o di traumi che si riverberano in una vita intera senza patria,
senza origini, al di fuori da tutto.
Quello che impressiona più di tutto però è come Davy Chou riesca a
raggiungere un simile livello mescolando l’astrazione di Refn (nella seconda
parte), cioè quella che nasce da ambienti, frequentazioni, comparse e
ovviamente luci e musiche particolari, con la concretezza del cinema di ragazzi
della prima parte, con ancora dei momenti da Kore-eda di fenomenale
comprensione umana in strazianti sequenze di dialogo a tavola. Tutto si tiene
insieme perché Park Ji-min dà sempre una grande coerenza al suo personaggio
lungo le sue evoluzioni che diventano poi le evoluzioni del film.
Gabriele Niola, BadTaste.it
DAVY CHOU
Filmografia:
Le sommeil d’or (2011), Diamon
Island (2016), Ritorno a Seoul (2022)
Martedì 23 aprile 2024:
PETER
VON KANT di François Ozon, con Denis Ménochet, Isabelle
Adjani, Khalil Ben Gharbia, Hanna Schygulla, Stefan Crepon
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