Stagione 2023/2024 | 14 maggio 2024

 


ANIMALI SELVATICI

Regia: Cristian Mungiu
Sceneggiatura: Cristian Mungiu
Fotografia: Tudor Vladimir Panduru
Montaggio: Mircea Olteanu
Scenografia: Simona Paduretu
Interpreti: Marin Grigore (Matthias), Judith State (Csilla), Macrina Barladeanu (Ana), Orsolya Moldován (signora Dénes), Andrei Finti (Otto), Mark Blenyesi (Rudi), Ovidiu Crisan (signor Baciu), Cerasela Iosifescu (signora Baciu), Rácz Endre (Tibi), József Bíró (sacerdote), Zoltán Deák (Zsolt), Bacs Miklos (dottor Szántai), Alin Panc (Traian), Victor Benderra (Ben), Amitha Jayasinghe (Mahinda), Gihan Edirisinghe (Alick), Nuwan Karunarathna (Rauff), Kovacs Levente Jr. (poliziotto), Varga Csilla (signora Miklós), Orban Attila (signor Miklós), Boros-Piroska Klara (signora Gyöngyösi), András Hatházi (sindaco)
Produzione: Cristian Mungiu per Why Not Productions/Filmgate Films/Les Films Due Fleuve/Mobra Films/Wild Bunch/Film I Väst
Distribuzione: Bim Distribution
Durata: 125’
Origine: Romania, Francia, Svezia, 2021
Data uscita: 6 luglio 2023

Matthias torna nel suo villaggio natio in Transilvania pochi giorni prima di Natale, dopo aver lasciato il lavoro in Germania. Vorrebbe seguire più da vicino l’educazione del figlio Rudi che, lasciato alle cure della madre Ana, è rimasto in balia delle sue paure infantili, ma è preoccupato anche per l’anziano padre, Otto, e vuole rivedere la sua ex amante, Csilla. Quando alcuni lavoratori stranieri vengono assunti nella fabbrica di Csilla, la pace della comunità è rotta e le loro paure, conflitti e passioni esplodono con violenza.
Si parlano tante lingue nel piccolo villaggio della Transilvania in cui è ambientato “Animali selvatici”. Il rumeno, ovviamente, ma anche l’ungherese e il tedesco. Persino il francese, segno storico della cultura occidentale più influente, e l’inglese, la lingua globale per eccellenza. Tutti sembrano capirsi, riuscire a passare con naturalezza da una grammatica all’altra. Come se si fosse realizzata l’utopia della reciproca comprensione, in una rinnovata unità delle genti. Ma è solo un’impressione. Ogni sintassi ha le sue ragioni e le sue regole. E le differenze hanno un prezzo, sono implacabili. Dire «ti amo» in rumeno ha ben altro valore che dirlo in ungherese o in inglese. Dovrebbe significare una presenza più consapevole, una adesione più piena alla verità dei propri sentimenti. Perché esiste una lingua del cuore, che non ammette traduzioni. Per questo, la scena in cui Csilla chiede al silenzioso e spaesato Matthias di dichiarare i suoi sentimenti è emblematica. I due, pur giocando con gli «I love you», non trovano la lingua comune. Del resto, lei è di origine ungherese, lui tedesca… Potrebbe sembrare ben poca distanza a uno spirito comunitario. Ma su ogni punto di giunzione basta un niente per aprire una fattura.
Il discorso linguistico di Mungiu, anche nell’apparente indifferenza di tono, è cristallino. Emblematico, appunto…  Perché il suo cinema va sempre in cerca dell’esemplare, del momento in cui il particolare e il generale coincidono. In cui i comportamenti dei singoli, persino microscopici, sono lo specchio esatto di determinate dinamiche sociali e politiche. Così da raccontare l’essenza profonda di un paese.
Qui Mungiu si sposta in Transilvania, in un piccolo villaggio in cui vivono fianco a fianco comunità di varia origine, ognuna con i suoi riti e usi. Rumeni, certo, ma anche magiari e tedeschi. Senza contare i rom, marchiati a fuoco dalla diffidenza generale e storicamente costretti alla diaspora: il segno più evidente e drammatico di quanto, in realtà, la pace sia tormentata da odi antichi, rivalità solo assopite, pronte a riemergere e a riesplodere. E, in effetti, la situazione degenera quando in paese arrivano dei lavoratori dallo Sri Lanka, assunti da un’azienda di prodotti alimentari con finanziamenti dell’Unione Europea. La rabbia monta e la comunità si ribella contro gli invasori venuti a rubare il lavoro, a portare malattie e barbare credenze.
Lo stesso tracciato della vicenda assorbe, così, quella tensione tipica delle immagini di Mungiu, in cui, nell’apparente neutralità delle inquadrature, agisce l’ombra di un fuoricampo incombente, di qualcosa che irrompe all’improvviso e che rimette in discussione gli equilibri. Un fulmine, una deflagrazione, una tempesta, il sasso che spacca il vetro in “Un padre, una figlia”, la molotov che incendia qui la tranquilla cena dei singalesi. Ed è l’attimo in cui il sistema, formale e sostanziale, si incrina e il caos entra nelle falle.
Dalla R.M.N., dalla risonanza magnetica, emerge allora l’immagine di un razzismo profondo, di una paura dell’altro che testimonia il fallimento dell’integrazione. E che vede la stessa Europa e l’occidente come entità aliene. Neanche l’autorità ha la capacità di mediare tra le istanze e comporre i conflitti. Come emerge nella straordinaria scena dell’assemblea. Un’unica lunghissima inquadratura fissa, in cui la voce fuoricampo del sindaco cerca di mettere ordine tra le divagazioni, le accuse e le recriminazioni dei partecipanti. E in cui si stratificano più livelli. La discussione sugli immigrati, il conflitto sociale, l’ipocrisia e il pregiudizio. E poi, in primo piano, Matthias che cerca, per l’ennesima volta, di trovare le parole giuste per esprimersi.
Ma la complessità del discorso di Mungiu, oltre a sancire questa crisi del dialogo, si sintonizza anche su una realtà più profonda e primitiva, una specie di lato selvaggio, come gli orsi e gli altri animali che popolano la foresta. Qualcosa di misterioso che sta sotto i simboli dei riti e che carica di senso le cose, che nutre le visioni e le premonizioni. Una dimensione che, in un modo o nell’altro, rivendica la sua esistenza e ristabilisce la sua legge. Anche a costo di vittime sacrificali.
Aldo Spinello, Sentieri Selvaggi

Cristian Mungiu è uno dei più importanti registi europei del nuovo millennio, e questo è un fatto. È anche un nome che purtroppo non tutti ricordano, e questo è un altro fatto. Ma che importa? Basta citare “4 mesi, 3 settimane, 2 giorni”, l'aborto nella Romania di Ceausescu, per fare ancor oggi un salto sulla sedia. Ed era il 2007. I titoli successivi perdono qualcosa non in qualità ma in impatto. Chi ricorda il magnifico “Oltre le colline”? Certo: Palma d'Oro a Cannes, “4 mesi” storicizzava. Rivelava un mondo appena scomparso con stile rigoroso fino alla crudeltà. Trasudava amore e disperazione. Gli altri sono film al presente. “Un padre, una figlia (Bacalaureat)”, storia di ordinaria corruzione, rispecchiava un intero Paese, forse un continente (i Paesi più ricchi sono spesso più sofisticati, non necessariamente più onesti). Oggi che il vento è cambiato in buona parte d'Europa, il compito è ancora più arduo. Infatti Mungiu sceglie una regione ultrasimbolica come la Transilvania, il lembo più occidentale della Romania. Non terra dei vampiri, come penseremmo noi, ma eterna frontiera. In questo teatrino plurilingue (si parla romeno, ungherese, tedesco, e non solo), focolaio di diseguaglianze, si muovono personaggi molto diversi e molto veri anche se a volte troppo simbolici. C'è un bambino che ha visto troppo. Un padre ex emigrato che tenta di essere un buon padre, ma dovrebbe prima rieducare sé stesso (e ritrovare il proprio vecchio genitore malato). Una giovane divorziata troppo ricca e colta per non suscitare invidie e sospetti. Un amore che non può essere amore perché intossicato da rapporti di potere, nei due sensi. Il lavoro che manca. Due immigrati dallo Sri Lanka che catalizzeranno odio e razzismo. E poi: tumultuose assemblee cittadine, feste silvestri e violente con gli abitanti travestiti da orsi, un prete che gira in Mercedes. Magari Mungiu si fa prendere un po' la mano dall'urgenza di dire tutto. Maestro dell'allusione e dei piani sequenza, dà il meglio quando concentra anni di vita e oceani di non detto in lunghe inquadrature che vanno al cuore dei luoghi e dei personaggi, fondendo l'intimo e l'economico. Così come gira scene di massa degne di Fritz Lang (“Furia”). Dopotutto questa è la storia di una comunità, soggetto sempre più raro nel cinema di oggi (con le dovute eccezioni per fortuna, pensiamo al recente “As Bestas”). Ma poco importano squilibri e derive. Il titolo originale, “R.M.N.”, cioè Risonanza Magnetica Nucleare, dice con forza l'ambizione clinica di questo film generoso e imperfetto. La diagnosi è ridondante ma esatta. Anzi, implacabile.
Fabio Ferzetti, L’Espresso

CRISTIAN MUNGIU
Filmografia:
Occident (2002), 4 mesi, 3 settimane, 2 giorni (2007), Racconti dell'età dell'oro (2009), Oltre le colline (2012), Un padre, una figlia (2016), Animali selvatici (2021)

Martedì 21 maggio 2024:
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