Stagione 2023/2024 | 7 maggio 2024
RAPITO
Regia: Marco Bellocchio
Soggetto: liberamente ispirato a “Il caso Mortara” di Daniele Scalise (Mondadori)
Sceneggiatura: Susanna Nicchiarelli, Marco Bellocchio,
Edoardo Albinati, Daniela Ceselli
Fotografia: Francesco Di Giacomo
Musiche: Fabio Massimo Capogrosso
Montaggio: Francesca Calvelli
Scenografia: Andrea Castorina
Costumi: Sergio Ballo, Daria Calvelli
Interpreti: Enea Sala (Edgardo Mortara da bambino), Leonardo
Maltese (Edgardo Mortara da ragazzo), Paolo Pierobon (Papa Pio IX), Fausto
Russo Alesi (Momolo Mortara), Barbara Ronchi (Marianna Mortara), Filippo Timi
(Cardinal Antonelli), Fabrizio Gifuni (Pier Gaetano Feletti), Samuele Teneggi
(Riccardo Mortara), Paolo Calabresi (Sabatino Scazzocchio), Bruno Cariello
(Maresciallo Lucidi), Andrea Gherpelli (Angelo Padovani), Corrado Invernizzi
(giudice Carboni), Fabrizio Contri (avvocato Jussi), Aurora Camatti (Anna
Morisi), Giustiniano Alpi (avvocato Liberale), Renato Sarti (rettore), Federica
Fracassi (signora anziana), Walter Lippa (Angelo Moscati)
Produzione: Beppe Caschetto per IBC Movie, Simone Gattoni per
Kavac con Rai Cinema in coproduzione con Ad Vitam Production/The Match Factory
Distribuzione: 01 Distribution
Durata: 134’
Origine: Italia, Francia, Germania, 2023
Data uscita: 25 maggio 2023
Nel 1858, nel quartiere ebraico di Bologna, i
soldati del Papa irrompono nella casa della famiglia Mortara. Per ordine del
cardinale, sono andati a prendere Edgardo, il loro figlio di sette anni.
Secondo le dichiarazioni di una domestica, ritenuto in punto di morte, a sei
mesi, il bambino era stato segretamente battezzato. La legge papale è
inappellabile: deve ricevere un’educazione cattolica. I genitori di Edgardo,
sconvolti, faranno di tutto per riavere il figlio. La battaglia dei Mortara
assume ben presto una dimensione politica.
Sulla domanda circa la presenza o meno di una
divinità, Marco Bellocchio ci ha costruito sopra un’intera filmografia. Dal suo
punto di vista, lo spazio del dubbio non può esistere. O tutto o niente. O un
Dio c’è, e allora deve manifestarsi, oppure, se un Dio non c’è, non ha senso
costruire un sistema di pensiero, di potere, di leggi, di dogmi e di
prescrizioni che regolino la vita degli uomini. Se Marx può aspettare,
Bellocchio no. O questo Dio si palesa o altrimenti l’unica soluzione è la
guerra contro tutto e tutti. E questo da sempre, non certo da ora con “Rapito”.
Anzi, proprio il suo ultimo film, ricostruzione
della vicenda vera di Edgardo Mortara, bambino bolognese di origine ebraica che
nel 1858, all’età di sei anni, venne prelevato dalla polizia dello Stato
pontificio perché battezzato all’insaputa dei genitori e da lì poi portato a
Roma e allevato come un seminarista sotto l’ala di Papa Pio IX (che avvallò il
rapimento e si impuntò nel difendere la giustezza dell’operato della Chiesa), è
in qualche modo la summa del rapporto fra il regista e Dio; o meglio ancora,
forse, tra il regista e la religione intesa come sistema di potere temporale e
spirituale, rappresentata dalle istituzioni che ne incarnano la presenza
pervasiva: la Chiesa, lo Stato, la famiglia. Bellocchio è da sempre in cerca di
un segnale che certifichi la presenza di Dio nel mondo. Le questioni teologiche
non gli interessano, semplicemente chiede una manifestazione. Il suo non è un
cinema di attesa, di silenzi, di domande rivolte al vuoto (un cinema, diciamo,
bergmaniano), ma è al contrario pieno di provocazioni e invocazioni, di
boccacce, schiaffi e sberleffi. E questo perché in assenza di una prova certa,
Dio preferisce attaccarlo, indagarlo, a volte anche bestemmiarlo, ossessionato
dalle sue manifestazioni, dai suoi manufatti - crocifissi, statue, madonne,
vestiti talari - che immancabilmente strappa dalla loro sede in sequenze
oniriche dal sapore surreale, facendoli camminare, sanguinare, parlare,
aggredire.
Per Bellocchio la cosa più sconvolgente del caso
Mortara è proprio l’impossibile atto di rinascita a cui il bambino viene
sottoposto. Da regista e da ateo, a interessarlo è l’atto in sé, il momento in
cui la parola entra nel corpo e trasforma Edgardo da ebreo in cristiano. Per
questo nella sequenza del processo al domenicano Pier Gaetano Feletti (Fabrizio
Gifuni), l’inquisitore che ordinò il rapimento del bambino, mentre la balia
racconta il suo gesto per la prima e unica volta il suo film si apre a un
flashback: Bellocchio vuole vedere e capire, vuole la dimostrazione di quel
cambio di fede, quell’atto di incarnazione. E ovviamente non vede niente,
perché la religione è un atto arbitrario e gratuito, ed è fatta di parole che
generano immagini fasulle, artificiose, buone per essere smitizzate,
ridicolizzate, staccate dalle pareti.
In “Rapito”
la religione non è libertà o scelta, né tantomeno salvezza o redenzione. La
religione è semplicemente fatta di parole: parole che impongono un obbligo,
un’obbedienza, che con la forza della persuasione creano prigioni invisibili e
inscalfibili. Agli occhi di Bellocchio anche il celebre «non possumus» di Pio
IX (Paolo Pierobon) diventa una gabbia soprattutto per chi lo pronuncia, così
come il rifiuto a convertirsi della famiglia Mortara, con il padre (Fausto
Russo Alesi) più dubbioso e la madre (Barbara Ronchi) orgogliosamente
ortodossa, segna la fine del rapporto col figlio e lo stesso fanatismo con cui
Edgardo (Enea Sala da bambino, Leonardo Maltese da ragazzo) abbraccia la fede
cristiana da adulto, diventando un fedelissimo del Papa e un missionario che
cercherà di convertire anche i familiari, si trasforma in una scelta ottusa
percepita come una salvezza.
“Rapito”
rappresenta per Bellocchio una probabile resa dei conti con sé stesso e la sua
idea di religione, con la sua ricerca ed esigenza di risposte, il suo bisogno
di attaccare per comprendere, di togliere sacralità al sacro per confrontarsi
alla pari con un mistero che mistero non dovrebbe essere. Per questo è un film
netto, esplicito, tagliato con l’accetta, immerso in uno stato febbrile che non
cerca assoluzione o pietà - tutti i personaggi sono bloccati nella loro
dimensione storica e compressi nel loro ruoli di figli, padri, madri,
pontefici, inquisitori - e riporta tutto alla soggettività del regista stesso,
stanco delle preghiere, dei crocefissi, degli abiti in controluce, dei sogni e
degli incubi, eppure aggrappato a questi segni come alle uniche forme
attraverso cui sa confrontarsi con l’invisibile.
Roberto Manassero, Cineforum
A somministrare i sacramenti a Edgardo Mortara,
piccolo ebreo nato nel 1851 a Bologna, è (……) una domestica cattolica che
vedendolo febbricitante e sentendo i genitori pregare lo battezza di nascosto
segnandone il destino. Pochi anni dopo un maresciallo, peraltro mite e
premuroso (eccellente Bruno Cariello), bussa a casa Mortara, una vasta dimora
borghese piena di stanze e di bambini: siamo nel 1858, Bologna è Stato
Pontificio, Edgardo (Enea Sala) ormai appartiene alla Chiesa. Seguono vane
suppliche all'Inquisitore (un Fabrizio Gifuni scintillante di perfidia),
irruzione di sgherri nerovestiti, rapimento notturno del bimbo caricato su una
carrozza sferragliante tra De Amicis e Poe, fuga a Roma con sosta nel Duomo di
Senigallia, dove Pio IX era stato battezzato. E al piccolo Edgardo in lacrime
appaiono le prime immagini di un mondo ignoto, minaccioso quanto affascinante.
Il Battesimo di Gesù, un Cristo in croce, San Sebastiano. Lo strappo si è
consumato. A nulla varranno le denunce e lo scandalo internazionale, le
pressioni dei Rotschild, le angosce del cardinale Antonelli (Filippo Timi). Il
piccolo Edgardo cresce sulle ginocchia di Pio IX, ultimo Papa Re (un ineffabile
Paolo Pierobon). Nella Casa dei Catecumeni, fra altri piccoli cristianizzati a
forza, scopre l'astuzia, la simulazione, la morte (c'è anche un bambino
malato). E il fasto, la potenza, le seduzioni di quella fede così diversa.
Quando, adulto, si troverà di fronte il fratello, tra i bersaglieri che
irrompono a Porta Pia, Edgardo (Leonardo Maltese) è ormai un altro. Un
sacerdote cattolico, sia pure scosso da violenti lampi di rivolta. Un
"traditore" insomma, altro tema caro a Bellocchio. Un'anima spezzata
intorno a cui questo regista, capace come nessuno di indagare la dimensione
carnale della politica, tesse una complessa polifonia di voci, sentimenti,
visioni: i genitori, divisi a loro volta (Fausto Russo Alesi e Barbara Ronchi);
gli ebrei romani, stretti tra sotterfugi e sottomissione (Paolo Calabresi); le
strategie (e i grotteschi incubi) del pontefice; naturalmente il Risorgimento,
mai in primo piano. In un gran teatro che rimescolando nazione e famiglia,
religione e identità, scava nel profondo, dando a questo dimenticato "caso
Dreyfus" preunitario un'urgenza e un impatto inesorabili. L'ennesima grande
prova di un regista che non finisce di stupire. E per il nostro cinema una -
laicissima - benedizione.
Fabio Ferzetti, L’Espresso
MARCO BELLOCCHIO
Filmografia:
I
pugni in tasca (1965), La Cina è vicina (1967), Amore e rabbia (1969), Sbatti il mostro in prima pagina
(1972), Nel nome del padre (1972), Marcia trionfale (1976), Il gabbiano (1977), Salto nel vuoto (1980), Gli
occhi, la bocca (1982), Enrico IV
(1984), Diavolo in corpo (1986), La visione del sabba (1988), La condanna (1991), Il sogno della farfalla (1994),
Il principe di Homburg (1997), La
balia (1999), L'ora di religione
(2001), Buongiorno, notte (2003), Il regista di matrimoni (2005), Sorelle (2006), Vincere (2009), Sorelle mai
(2010), Bella addormentata (2012), Sangue del mio sangue (2015), Fai bei sogni (2016), Il traditore (2019), Esterno notte (2022), Rapito (2023)
Martedì 14 maggio 2024:
ANIMALI SELVATICI di Cristian Mungiu, con Marin Grigore, Judith State, Macrina
Barladeanu, Orsolya Moldován, Andrei Finti
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